In quel momento di “chiusura dal mondo”, mio figlio era il mio migliore amico.
Mi piaceva apprendere il suo modo di guardare con il cuore.
All’età di 4 anni, iniziò a sfoderare una parlantina niente male. Mi nutriva dei suoi discorsi come fossero cibo filosofico di un sapere che alcuni non raggiungono nemmeno invecchiando.
Ieri sera, prima di addormentarmi, mi ha parlato lui, dei suoi amici.
Ha iniziato ad elencare i loro nomi, contando con le dita.
– E il migliore…quello del cuore?
– Si chiama Daniel!
– Perché è il tuo migliore amico?
– Perché mi vuole bene. mi sorride sempre e non mi dà mai le botte. Questa frase perse la sua apparente banalità dal momento che fu la voce della sua innocenza a pronunciarla.
Quanta riflessione può regalarci la parola disinteressata e mai costruita di un bimbo.
Dovremmo leggerne il contenuto costantemente, come si fa con i detti dei nonni o i proverbi secolari che ci seguono in vita.
Dovremmo riuscire ad essere amici solo di chi ci vuole veramente bene, riuscire a fare la distinzione con un’immediatezza che spesso non ci appartiene, stare con persone con le quali avere cose da condividere, con le quali riuscire a scambiare i sogni.
Essere “amici” di chi non ci dà le “botte”; quelle che vanno oltre il gesto fisico, oltre lo schiaffo, amici di chi non ferisce alle spalle, né al cuore, né tanto meno alla mente.
Poi, dopo qualche minuto, fece la stessa domanda a me.
Aveva la voce debole e assonnata.
Gli accarezzai il volto, sino a farlo addormentare.
Gli risposi solo quando il suo respiro divenne più profondo.
– Siete tu e il tuo papà.
Oggi, così,
………………………….come in quei giorni cosi silenziosi.
Osserva gli occhi di un bambino, la loro freschezza, la loro radiosa vitalità, la loro vivacità. Assomigliano a uno specchio, silenzioso ma penetrante: solo occhi simili possono raggiungere le profondità del mondo interiore.
(Osho)