Ero rimasta sola, in una stanza quadrata, c’era un vetro davanti a me e tanti lucine colorate.
Prevalevano l’azzurro elettrico e il rosso, il diavolo e l’acqua santa, e poi “tii tii tii” un suono costante che cercai di non sentire.
C’era il mio respiro, forte, chiaro, potente e stanco, a prevalere sulle macchine. Sembrava una gara a chi fosse più forte. Volevo vncere io. da sola, senza nulla di supporto.
Vi siete mai sentiti veramente il vostro respiro addosso, come se non esistesse altro?
Come se, l’unica cosa a cui potete appigliarvi fosse quella.
Non c’era nessuno intorno a me.
Ero viva, ero realmente in quella stanza o ero passata a miglior vita? l’ho pensato. ve lo dico. non mi vergogno. non c’era mai nessuno vicino a me. nessuno a dire, ad incoraggiare. non c’era nessuno se non Edward (Mani di Forbice, il soprannome che diedi all’infermiere che mi rasò i capelli a zero). Edward entrava, controllava e andava via.
In quei giorni di bunker, sembrava essersi trasformato in un robot che non poteva andare oltre i programmi installati.
Quando ne avevo la forza mi mettevo a dormire. Di solito, dormire è visto come un momento sereno, di ristoro, in cui un uomo si lascia andare, si abbandona.
I miei sogni in quel periodo, spesso non mi permettevano di prendere una pausa dalla sofferenza.
Gli incubi erano così orribili che mi forzavo a svegliarmi. Quel luogo mi fece conoscere una forma di terrore che ancora non avevo mai provato.
Non era il dolore a farmi paura, ma i mostri che abitavano il silenzio.