….entrai nella sala C6. Era arrivato il momento tanto atteso. Entrò l’infermiera ad accendere la luce della stanza e a smentire l’immaginazione. Mi accompagnarono in bagno, guardai il mio volto allo specchio e mi chiesi chi fosse quel vegetale malato e senza forze. Ero io. Stavo morendo. Ero gonfia di medicinali, una donna obesa, la testa completamente rasata, il colore della pelle come le lenzuola. Ero completamente lacera.
Era finita.
Sentivo che non avrei resistito un giorno di più. La mia resistenza, sembrava essere stata tarata sino a quel giorno. Sentivo ticchettare il timer della mia forza agli sgoccioli. Tornai a letto portando con me un asciugamano di lacrime. Mi spogliarono, poi mi vestirono di un camice con spacco vertiginoso che partiva dalla schiena fin giù.
Ero pronta.
Ultimi pensieri di veglia, poi tutto sbiadisce e l’anestesia mi stacca da me. Tredici ore di assenza. Tredici ore di anima e corpo divisi dall’uscio blindato del sonno indotto. Mentre l’equipe mi lavorava addosso. Mentre nel mattatoio tornava la quiete silenziosa di quella liturgia di scienza. Dove si macellava il male via dalla vita. Dormivo. Tredici ore dormivo, assente a me stessa. Poi piano piano il risveglio. Piano piano, impercettibilmente. Trascorsa l’ora tredici iniziavo lentamente a riprendermi.
Ero tornata.
O quasi.
Urlai come a far crollare quelle pareti.
Iniziavo, senza saperlo, a riprendermi la vita. La vita che mi aveva raggiunto e ritrovato. La vita mi ha ritrovato. .. correndomi dietro mentre me ne andavo da lei. La vita mi ha raggiunto che scappavo. Ora metto il punto a questo parentesi devastante, senza sprecare nulla.
E proprio lì, in quell’istante, mi rendo conto, come forse non ho ancora mai fatto, che la fine coincide con l’inizio. Della vita. Del secondo tempo che mi è stato donato e di cui, ne sono certa, non sprecherò più un attimo.
Era il 4 dicembre come oggi ma era diverso.
Da quel giorno , ho due compleanni da festeggiare.